30 dicembre 2009

Anni nuovi

Laggiù sta la morte, ma niente paura. Afferra l'orologio con una mano, prendi con due dita la chiavetta, falla girare dolcemente. Adesso si apre un altro periodo, gli alberi dispiegano le loro foglie, le barche corrono le loro regate, il tempo come un ventaglio si va empiendo di se stesso, e da lui sbocciano l'aria, la brezza della terra, l'ombra di una donna, il profumo del pane. Che vuoi di più? Che vuoi di più? Legalo presto al tuo polso, lascialo battere libero, fa di tutto per imitarlo. La paura arrugginisce le àncore, ciascuna delle cose che si potevano raggiungere e che fu dimenticata sta corrodendo le vene dell'orologio, incancrenendo il freddo sangue dei suoi rubini. E laggiù sta la morte se non corriamo e arriviamo prima e non comprendiamo che non ha più nessuna importanza.
Julio Cortázar, Storie di cronopios e di fama, traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini, Einaudi 1981, p. 25.

One week (1920), Edward F. Cline, Buster Keaton

27 dicembre 2009

Nessuna direzione

Steen Doessing, 2009

Dalla sua, la voce, ha almeno un suono, talvolta un senso. Ma deve sempre avere una direzione. Le parole potevano non avercela, ma dovevano sempre avere un senso, non potendo trovare appigli che in se stesse, e così resistere. Dove mandarle se non da chi potevano ricevere un perdono?
Dalla sua, la voce, ha almeno un suono. Talvolta quella di Daniele arrivava assediata dalla tristezza, sparata nell'infinito vuoto dei cavi.
Nei lunghi periodi di silenzio, Nina cercava di rievocarne la materialità.
Un pomeriggio d'ottobre la svegliò da un sonno doloroso, e aveva un colore, quel giorno. Era rossa, brillava. E il colore diventava via via più intenso, dirigendosi nell'unico punto luminoso del risveglio.
[...]
Era stupefacente la sua totale sicurezza di direzione nella più assoluta assenza di insinuazione.
Lentamente si apriva, faceva il giro della stanza, squagliando gli orologi incastrati sul muro.
Le bastò rompere un acino d'uva tra le labbra, dopo.
[...]
Nina guardò fuori dai vetri, non pioveva più. A est, verso il nord, c'era un punto del cielo dove le nuvole avevano lasciato spazio ai cobalti dell'ultimo inverno.
Spostò il suo sguardo sul foglio caduto: c'era l'impronta del piede nudo di un bambino. Lo raccolse, e abbandonò la stanza con un sorriso.

9 dicembre 2009

8 dicembre 2009

Sperduti nel buio

Capita – raramente ma capita – di sognare i sogni di altri.


"Da ragazzo mi sembra di aver letto che Sperduti nel buio influenzò non poco i registi del neorealismo, ma non ho ritrovato conferma di questo ricordo. Forse l'ho sognato, o forse anche loro avevano letto l'articolo di Barbaro, alimentando le loro opere con la fantasticheria di un film muto fatto solo di parole.” (A.S.)

Il mio "sogno" come ho scritto in un commento al post dello zombi stavolta si chiama Sa… d… Sadoul! George Sadoul, e sta in una tavola fuori testo tra le pagg. 82-83 della Storia del cinema mondiale. Vol. I. Dalle origini alla fine della II guerra mondiale, traduzione della settima ed. francese di Mariella Mammalella, Feltrinelli, Milano 1981. 
Mai l'avessi detto!

4 dicembre 2009

Cult!

Oggi ho scoperto una citazione di Nascar anche qui, nel blog di un collettivo di Firenze appassionato e competente di cinema. Vorrei ringraziare, ma ho l'impressione che non ci sia più nessuno. 
C'è sempre qualcosa di magico quando un libro continua a camminare da solo: senza festival, senza spettacoli di alcun genere, senza avere avuto il front-line di alcuna libreria, e soprattutto senza essere una "novità". È divertente. Ricordo le risate quella volta che chiamò una radio australiana bilingue, che io m'immaginavo il coso tra i canguri, durante quell'intervista per me seminotturna, per ovvie questioni di orario: se buchi il globo dall'Atene Sarda, vedi che esci esattamente lì, a Sydney! (Ma come ha fatto il piccolo ad arrivare sin là? Come?!). E poi tutte quelle recensioni, l'invito – sorprendente! – al convegno sull'Onomastica nella letteratura con gli Scrittori Veri… Per una che scrive a piacere e che forse non pubblicherà più, continuando sulla strada delle circolari esistenziali per gli amici, be', dai, son soddisfazioni Uno, solo uno, un CULT! Ma anche, come direbbe l'indimenticabile Pier Francesco Loche: "antichità! antichità!"  
(Post dedicato al mio fraterno amico Graziano Salerno, pittore, autore dell'immagine di copertina di Nascar, intitolata Désir d'un enfant [Paris, 2000])

30 novembre 2009

Il gladiatore Posthumous

Roberto Bolaño è morto nel 2003. Quello che segue è un estratto dall’intervista di Monica Maristain, pubblicata su Playboy (Messico) il mese della sua morte e che ora appare in Roberto Bolaño: The Last Interview & Other Conversations (Melville House Publishing), tradotta in inglese da Sybil Perez. Un libro che mi piacerebbe venisse tradotto e pubblicato anche in Italia.

Monica Maristain: If you hadn’t been a writer, what would you have been?
Roberto Bolaño: I would like to have been a homicide detective, much more than being a writer. I am absolutely sure of that. A string of homicides. I’d have been someone who could come back to the scene of the crime alone, by night and not be afraid of ghosts. Perhaps then I might really have become crazy. But being a detective that could easily be resolved with a bullet to the mouth.
M.M.: Have you shed one tear about the widespread criticism you’ve drawn from your enemies?
R.B.: Lots and lots. Every time I read that someone has spoken badly of me I begin to cry, I drag myself across the floor, I scratch myself, I stop writing indefinitely, I lose my appetite, I smoke less, I engage in sport, I go for walks on the edge of the sea, which by the way is less than 30 meters from my house and I ask the seagulls, whose ancestors ate the fish who ate Ulysses: Why me? Why? I’ve done you no harm.
M.M.: Which five books have marked your life?
R.B.: In reality the five books are more like 5,000. I’ll mention these only as the tip of the spear: “Don Quixote,” by Cervantes; “Moby Dick,” by Melville. The complete works of Borges, “Hopscotch,” by Cortázar, “A Confederacy of Dunces,” by Toole. I should also cite “Nadja” by Breton; the letters of Jacques Vaché. Anything Ubu by Jarry; “Life: A User’s Manual,” by Perec. “The Castle” and “The Trial,” by Kafka. “Aphorisms,” by Lichtenberg. “The Tractatus,” by Wittgenstein. “The Invention of Morel,” by Bioy Casares. “The Satyricon,” by Petronius. “The History of Rome,” by Tito Livio. “Pensées,” by Pascal.
M.M.: John Lennon, Lady Di or Elvis Presley?
R.B.: The Pogues. Or Suicide. Or Bob Dylan. Well, but let’s not be pretentious: Elvis forever. Elvis and his golden voice, with a sheriff’s badge, driving a Mustang and stuffing himself full of pills.
M.M.: Have you seen the most beautiful woman in the world?
R.B.: Yes, sometime around 1984 when I worked at a store. The store was empty and in came a Hindu woman. She looked like a princess and well could have been one. She bought some hanging costume jewelry from me. I was at the point of fainting. She had copper skin, long red hair, and the rest of her was perfect. A timeless beauty. When I had to charge her, I felt embarrassed. As if saying she understood and not to worry, she smiled at me. Then she disappeared and I have never again seen anyone like her. Sometimes I get the impression that she was the goddess Kali, the patron saint of thieves and goldsmiths, except Kali was also the goddess of murderers, and this Hindu woman was not only the most beautiful woman on earth, but she seemed also to be a good person — very sweet and considerate.
M.M.: What do you wish to do before dying?
R.B.: Nothing special. Well, clearly I’d prefer not to die. But sooner or later the distinguished lady arrives. The problem is that sometimes she’s neither a lady nor very distinguished, but, as Nicanor Parra says in a poem, she’s a hot wench who will make your teeth chatter no matter how fancy you think you are.
M.M.: What kinds of feelings do posthumous works awaken in you?
R.B.: Posthumous: It sounds like the name of a Roman gladiator, an unconquered gladiator. At least that’s what poor Posthumous would like to believe. It gives him courage.

FONTE:
http://papercuts.blogs.nytimes.com/2009/11/23/stray-questions-for-roberto-bolano/#more-6425

27 novembre 2009

Gli amici mi dicevano

Mi naban sos amikos, benitinde a Nord.
In kussas terras predosas in etternu
tue ses pèrdiu komente i’ ssu desertu.
E ddeo iskìa ki podìa akkattare
i’ ssas terra’ lluzanar dessu Settentrione
tanta zente affainada a ddìe e a nnotte,
operaior d’iskina e zzente kene gabbale,
ma no iskìa e no’ ll’aìa mai krèttiu
ki tanta zente in angùstia kurrìa’
ttimende a nno akkudire
s’urtima posta ordìa assu balanzu.
Officinas tottube, vummu, prùghere,
unu bette sole vrittu anneulàu
iskurikande s’àghera ke in d’unu lokku ’e teyu
E zzente, zente, tottube zente,
ribu krèskiu de zzente andande
ribu krèskiu de zzente benende
timende sa mama ’essu reposu, timende
sa vùghida ’essu tempus, timende
sas okradar malinnar de kie t’istat i’ ss’oru
timende sa kurrenta ’essa màkkina tonta
ki a traittorìa ti pode’ ddigollare
iskronniàndeti su trattu bbellu ’essa karena.
Nois isseperamus kust’àtteru vronte.


Gli amici mi dicevano, vieni al Nord.
In quelle terre pietrose in eterno
ti perdi come nel deserto.
E io sapevo di poter trovare
nelle terre feraci del Settentrione
tanta gente notte e giorno alacre al lavoro
operai di schiena e gentuccia da niente,
ma non sapevo e non l’avrei creduto
che tanta gente in angoscia corresse
con l’ansia di mancare
l’ultimo agguato teso per guadagno.
Officine dovunque, fumo, polvere
un freddo enorme sole tra la nebbia
rabbuia l’aria come per cordoglio.
E gente, gente, ovunque gente
fiume in colma di gente che va
fiume in colma di gente che viene
temendo la fonte del riposo, temendo
la corsa rapida del tempo, temendo
le occhiate furbette di chi ti sta vicino
temendo la corsa della macchina scempia
che a tradimento può di te far strazio
sfigurandoti i nobili tratti del corpo.
Noi scegliamo questo nostro fronte. 


Antonio Mura, Su birde. Sas erbas. Poesie sommerse, poesie bilingui, Ilisso, Nuoro 1988.




Antonio Mura nacque a Nuoro il 24 luglio 1926 da Maria Antonia Bande Ticca e da Pietro, ramaio di origine isilese e poeta tra i più grandi del Novecento sardo. Il tempo della sua prima giovinezza coincise con gli anni del fascismo e fino al termine della seconda guerra mondiale. (Anche in Sardegna il regime aveva condotto la sua vana battaglia contro l’uso dei dialetti e delle lingue a diffusione regionale, nel tentativo di far corrispondere alla solida unità statuale e politica, un'unità culturale.) Finita la guerra, diplomatosi come ragioniere, collaborò al periodico Aristocrazia fondato e diretto da Raffaello Marchi, animatore culturale e poeta. Si iscrisse alla facoltà di Scienze economiche e marittime di Napoli e si impegnò come collaboratore della rivista anarchica VolontÁ. Compì un primo tentativo di ritorno a Nuoro, ma fu costretto a traferirsi in Germania a causa dell'imperante disoccupazione, finchè non venne assunto presso l'Associazione dei Commercianti. Nel 1968 vinse il Premio Ozieri nella sezione Poesia sarda. Si dedicò attivamente anche alla traduzione, vincendo in quella sezione il premio Ozieri nel 1970 con la versione in sardo di Poésie ininterrompue di Paul Eluard. Morì a Bologna l’11 dicembre del 1975.

Maria Lai, Monumento a Gramsci, Stazione dell'Arte di Ulassai.

22 novembre 2009

Oltre l'orizzonte, il vento

Oltre la linea dell’orizzonte il vento non riusciva più a portarle, le nubi. Pioveva di continuo e il paese intero era sparito sotto la scura coltre. Anche il mare era invisibile, scomparsa la montagna. Sembrava che il gelo si fosse impadronito per sempre della casa.
“Non riuscirò mai più a scrivere...”.
Dopo. 
Il cuore gonfio di dolore infecondo, la pelle arida, le parole sole. 
Non un’eco. 
Immobili, nuvole basse a coprire il mondo.
“Non scriverò...”.
E mentre lo pensava, tuttavia, di quel deserto scriveva. 
Ma non già perché che le parole potessero sollevare la coltre: non la sollevavano. Non perché consolassero: non consolavano.

Da qualche parte sapeva già che ne avrebbe compreso il senso soltanto al termine della lunga notte. 

Scrivere, allora, per fermarli sulla carta i giorni, nel tentativo di porvi termine prima del tempo biologico, e ridisegnandone consapevolmente il segno, avere l’illusione di coglierne il segreto prima di perderlo per sempre. Ora che ogni orizzonte era destinato a scomparire, ancor più del mare, della montagna, dietro la nebbia dell’inverno.
Scrivere, per mettersi di fronte alla verità nuda e cruda di quanto aveva vissuto. Capirne il segreto della perdita oltre la povertà del freddo, nell'orizzonte scomparso.
“Non ce la farò...”.
Ma doveva raccontare. L’unico modo per continuare a far esistere l’enigma della fine. Se non altro.
Kazimir Malevich, Oil on canvas, 1918

17 novembre 2009

Il male minore

French Robots di Jean-Luc Moreau (1982)


Eyal Weizman è un architetto israeliano. Insegna alla University of London e ha scritto un saggio, Architettura dell’occupazione (Bruno Mondadori, pp. 341, euro 25), che ha fatto molto discutere, dedicato alla costruzione del Muro che separa Israele dai Territori palestinesi. In un piccolo librino, edito invece da poco da Nottetempo e intitolato Il male minore (pp. 52, euro 7), Weizman ha invece posto un problema di grande attualità di questi tempi, la cui formulazione è: se vi trovate di fronte a due mali, è vostro dovere optare per il minore. 

"La questione del «male minore» l’ha sollevata in modo critico per la prima volta un’ebrea migrata in America per sfuggire al nazismo, Hannah Arendt, in una conferenza del 1964, dedicata a «La responsabilità personale sotto la dittatura». Pochi anni prima la filosofa tedesca s’era interrogata, nel corso del processo contro Eichmann, grande organizzatore della deportazione, sulle ragioni della cooperazione offerta ai nazisti dai Consigli ebraici nelle nazioni occupate, atto rimosso da molti, e subito contestato alla Arendt: ebrei eminenti avevano collaborato con i massacratori con l’intento di salvare se stessi e altri ebrei, e per questo avevano lasciato che moltissimi di loro venissero deportati e gasati.
Il male minore, appunto, argomento che circola anche nelle affermazioni del criminale nazista nel corso del processo: siamo scesi a patti col diavolo senza vendergli l’anima. Oppure: noi che figuriamo colpevoli oggi, siamo però stati i soli a restare al nostro posto per evitare che le cose andassero anche peggio, mentre coloro che non hanno fatto nulla si sono sottratti alle loro responsabilità, pensando solo a se stessi, alla salvezza delle loro anime.
Come ci ricorda Hannah Arendt, chi sceglie il male minore dimentica troppo in fretta che sta scegliendo il male. Weizman sottolinea come nella nostra post-utopica cultura politica contemporanea il termine «male minore» è diventato oggi un fatto quasi naturale, e viene invocato in contesti incredibilmente diversi tra loro: dalla morale individuale al diritto internazionale, dalle economie della violenza nel contesto della «guerra al terrore» agli attivisti umanitari dei cosiddetti «diritti umani», portati a destreggiarsi in mezzo ai paradossi dell’assistenza - parola che sembra aver preso il posto precedentemente riservato al termine bene.
Sono spesso proprio i totalitarismi a usare l’argomento del male minore, dice l’architetto israeliano, che cita un altro scritto della Arendt, Le uova alzano la voce, dove viene ricordato il detto di Stalin, il solo contributo originale del capo sovietico alla dottrina marxista: «Non puoi rompere le uova senza fare una frittata». Ovvero, che non si può edificare il regime della vera giustizia tra gli uomini senza grandi sacrifici di vite umane. Una convinzione che ha portato anche da noi, in Italia, negli anni Settanta, diversi miei coetanei ad accettare il principio dell’omicidio politico come strumento rivoluzionario – e a sostenerlo anche oggi come un portato inevitabile dell’epoca.
Mary McCarthy, la scrittrice amica della Arendt, ha smascherato la fallacia del male minore: «Se qualcuno ti punta addosso una pistola e ti dice “Uccidi il tuo amico o io uccido te”, ti sta semplicemente tentando». Quando nient’altro è possibile, scrive Weizman, «fare niente è l’ultima forma effettiva di resistenza, e le conseguenze pratiche del rifiuto, e perciò del caos, sono quasi sempre migliori, se abbastanza persone rifiutano».
Quando la filosofa tedesca aveva articolato questo tema, non era ancora operante la razionalità dei computer, la logica del calcolo, che ha portato alle estreme conseguenze la questione nel capitalismo finanziario: introdurre il modello economico nei giudizi etici. Il calcolo e la misurazione dei beni e dei mali considerati come algoritmi – trend statistici delle scienze sociali, o aspetti di un problema computazionale – riducono di fatto la responsabilità personale e di giudizio.
Weizman ci ricorda che quando le questioni vengono pensate in termini economici ed espresse in numeri, «esse possono essere cambiate e sviate infinitamente». L’architetto ripercorre nel suo saggio la storia del «male minore» nel pensiero occidentale, attraverso Agostino che rompe con l’assolutismo del manicheismo (meglio le prostitute dell’adulterio, meglio uccidere un aggressore prima che questi uccida un passante innocente). Il male minore come prevenzione è un concetto che ha fatto molta strada presso di noi passando anche per il marxismo e i suoi interrogativi: il cambiamento deve comportare la riduzione o l’intensificazione della sofferenza?
La politique du pire ha lastricato i sentieri di Utopia negli ultimi settant’anni, sino ad arrivare agli ex maoisti francesi passati alla causa dei Diritti Umani degli anni Novanta, o alla «guerra al terrore» di Guantanamo, tutti esempi in cui il calcolo costi e benefici si modella non in relazione al male che si produce ma a quello che si previene. Qual è dunque l’antidoto a questa politica della menzogna? La responsabilità, scrive la Arendt, che è sempre un fatto individuale e non collettivo. Qualcosa di assolutamente soggettivo che invece i regimi totalitari, e quelli che aspirano a diventarlo, cercano di negare annacquando tutto nel «collettivo» dei sondaggi e delle opinioni mutevoli. L’autenticità dell’atteggiamento soggettivo, dice la filosofa, «si può misurare solo dalla caparbietà nell’affrontare eventuali sofferenze».
Non ci sono dunque regole generali, ma a tutti verrà prima o poi chiesto, come a Eichmann: perché hai obbedito? Perché hai dato il tuo sostegno? Lì è il momento di verità di ciascuno, per quanto sarebbe sempre meglio non arrivarci. Per questo bisogna pur fare qualcosa affinché la logica del «male minore» non trionfi oggi, qui tra noi."
Marco Belpoliti, E liberaci dal male minore, La Stampa, 8 nov. 2009

14 novembre 2009

'Occu 'e limba


Maria Lai, Legarsi alla montagna, Ulassai 1981


Ite naran sos pitzinnos cando pessan a sa vida
Ite nan sas mamas cando lis dan a pappare
Ite contana sos babbos cando lis dana dinare

In cale domo jocat
In cale domo brigat
In cale domo ammorat
In cale domo naschit
como
sa limba?

Ite pintan sos putzones cando sun supr' 'e su nie
Ite cantan sas pitzinnas iscurzas in su mare
Ite pessat s'ammorau chi si viet chene unu vrancu
E son vetzos in istiu in cuddhos camis bodios

In cale domo morit
como
sa limba?

Ite contat a sa cria prima 'e nde la durmire
It'isperat su denotte chin sa janna già tancada
Ite pessat su manzanu si la ponet in caminu

In cale domo naschit
como
sa limba?

Solu in domo nostra si podet ischidare
e in d'unu tempus de torrare a pessare
e allughere
a l l u g h e r e
pro virmare su 'occu chene conca
chi l'est 'achende su coro
a una chisìna.

11 novembre 2009

Vedo dal buio

Vedo dal buio
come dal più radioso dei balconi.

Antonella Anedda, Notti di pace occidentale, Donzelli, Roma, 1999


9 novembre 2009

Dialoghetto nascarese



– Di che parla il libro che stai leggendo?

È la storia di due amiche che si ritrovano improvvisamente imprigionate a Berlino est e non possono più frequentare il liceo, rimasto dall'altra parte della città…
– A che punto sei arrivata?
– Capitolo dodici, quando con un calcio lanciano dall'altra parte un pallone dove con un pennarello hanno scritto: "Un giorno tanti calci come quello che mi ha portato sin qua abbatteranno questo stupido muro".
– …
– A cosa pensi mà?

L'ascoltavo pensando al futuro, che almeno possa contare di più, per lei, avere più terra in tasca di quanta ne abbia sua madre, che nella sua ha solo un pezzo di cielo.

– La guerra è una cosa inutile e stupida. Tutte le guerre lo sono, tutte le separazioni, i muri, tutte le perdite, i veli, tutto il dolore…

Ho sussurrato, non ha sentito, già dorme. Buon segno.

Quando si diventa grandi "grandi" è solo nei sogni che i muri tornano a essere quelli conosciuti. Antichi muretti a secco, dove trovare lucertole che brillano al sole, more nerissime e dolci da mangiare, cicale felici che muoiono ebbre di luce.

1 novembre 2009

Una domenica di novembre

... la bassa stagione, che pareva bassa,
bassa non era ancora, Ground Zero;
c'è da bruciarsi anche ad andare in giro...

Gianni D'Elia, Bassa stagione, Einaudi, 2003



Mai stata così bassa la stagione
qui, tra quattrini e superstizione…
si processa l'ideale dell'aldiqua,

confondendo il comunismo con la realtà
che più lo tradì, usurpandone il nome;
si ignora il cuore puro di milioni

di persone, per cui compagno vuole
e volle dire amore, aiuto, unione;
tutta una storia, ecco, in liquidazione,

per interessi di bieco potere,
che riunisce poteri e opposizione,
destre e sinistre, governi da bere;

ma storie, ideali, una concezione
del mondo, si possono forse buttar via,
con una ideologia e filosofia tale

del bene comune e perciò singolare?
Sarebbe come buttar via la religione,
per cui stringemmo giustizia e libertà

nel Novecento italiano ed europeo,
la lotta e l'intelligenza migliore
che col sangue partigiano diede età

a noi che ne viviamo il giubileo
della menzogna, in svendita e confusione,
con le folle ammassate al Colosseo

dell'aldilà, Spiritus e Televisione…

Bassa stagione, p. 41

25 ottobre 2009

Sa gherra es tonta


Nella nostra società ipertecnologica organizziamo incessantemente enormi depositi di memoria, impauriti, forse, dal rischio di perdersi in un presente divenuto infinito, globalizzato, eterno e che sempre di più sembra minare la capacità e la volontà di ricordare il passato. Tuttavia ci sono società per le quali la memoria resta soprattutto una ferita cruenta della mente e per le quali la rimozione potrebbe sembrare l'unico rimedio efficace al dolore. Ma non è così. Bene lo sa, ad esempio, lo scrittore e poeta palestinese Ibrahim Nassrallah, che nel suo romanzo intitolato Dentro la notte (Ilisso, 2004), scrive: «Dimentichiamo per sopravvivere. Ma per non morire non dimentichiamo mai del tutto».
In Italia lo slogan “per non dimenticare” caratterizzò una miriade di iniziative che nel corso di lunghi decenni riproponevano la memoria di quel 12 dicembre in cui il terrore indiscriminato entrò nella storia del Paese: per non dimenticare la violenza, per non dimenticare l’ingiustizia di non poter far valere la verità. Così è stato sia per le vittime della guerra invisibile chiamata strategia della tensione, così per le tante vittime di mafia e per i loro parenti, condannati a essere per sempre testimoni della vita e della violenza che l’ha spezzata.
«Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell’ignoranza, come eravamo cresciuti noi della generazione del Littorio. Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza libertà non si vive, si vegeta», dichiarò Nuto Revelli nel 1999, nel suo discorso per in conferimento della laurea honoris causa.
Così anche Luigi Pintor nel suo libro del 1991 intitolato significativamente
Servabo, parola latina che condensa il senso profondo della memoria nel suo valore civico: conserverò, terrò in serbo, terrò fede, ma anche servirò, sarò utile. A dispetto dei depistaggi del tempo e dell’anima, solo la memoria può impedire l’insediarsi di allarmanti processi storiografici: dal revisionismo storico grande – sul passato remoto del fascismo, il nazismo, la Shoah – a quello piccolo sul passato prossimo della vicenda italiana, l’eversione, le stragi.
“Per non dimenticare” sono anche le parole con cui Giacomo Mameli chiude il suo ultimo libro
La ghianda è una ciliegia (Cuec, 2006), ed è appunto nel solco di questo lungo grido della storia contemporanea che nasce un'opera che straordinariamente ci costringe ancora a riflettere sul passato per comprendere ancor di più l'assurdità di quelle attuali. Mameli infatti – senza mai minimizzare o reificare il dolore del singolo uomo ma, anzi, trasmettendolo al lettore con grande pietas – trascende la realtà individuale per raccontare la tragica esperienza collettiva della seconda guerra mondiale con le rievocazioni dei soldati di Perdasdefogu (oggi più che novantenni) e delle loro peripezie in Russia, in Albania, in Grecia, nei campi di concentramento tedeschi e degli anni passati in India e in Sudafrica.
L’opera – pur rielaborata nella finzione del romanzo – si fonda sulle testimonianze reali degli anziani che, oltre sessant’anni fa, furono improvvisamente strappati dall’operoso e agreste microcosmo per essere catapultati in un mondo dilaniato dalla sofferenza.
La guerra non è mai giusta e ancor meno intelligente. La guerra è «tonta», come dice Peppino Carta fu Giovanni e di fu Puddu Doloretta (p.54) e «stupida» come dice quel Vittorio Tegas (p.307) che sa delle tre Italie perchè ha letto Chabod… Stupida la guerra, e le ragioni per farla, quelle di ieri in nome del fascismo, quelle di oggi in nome di una presunta democrazia. Ragioni irragionevoli, soprattutto se la si guarda, la guerra – com’è giusto che sia – dalla parte di tutte le genti che l’hanno subita anche quando erano convinte di combattere una causa giusta. Il libro di Mameli è vicino anche a Emilio Lussu, che in
Un anno sull’altipiano (1938) propone una realtà feroce e cruda dimenticando per sempre il mito romantico della morte eroica; qui la guerra «stupida e tonta» dei soldati di Perdasdefogu è quella «degli ordini sbagliati, delle scarpe di cartone, dei sacrifici umani a scopo dimostrativo».
In
La ghianda è una ciliegia Pietrino-Strìa (chiamato come il fratello maggiore morto sul Carso) racconta a pagina 122:
«A me – come a quasi tutti i miei amici di Foghesu – il fascismo piaceva davvero, lo sentivo dentro il cuore e dentro l’anima e mi entusiasmava… Mi sembrava che dovevo ringraziare il fascismo se avevo lavorato a Carbonia, se avevo visto il Duce, se avevo conosciuto il continente. Senza fascismo io sarei rimasto o contadino o pastore. Soldato è meglio. Sì, ragionavo così». Pietrino Civetta viene catturato dagli inglesi, deportato da Alessandria al Cairo, fino al Sudafrica in un campo di concentramento dove, non essendoci niente da fare, si mette a contare le spine del reticolato: «Contavo quelle spine rivolte in su. Il rettangolo lo avevo chiamato “Su campu” e gli avevo dato per confini i nomi dei paesi. Il lato lungo di nord era Ulassai, il lato lungo di sud Escalaplano. Il lato corto di nordovest Esterzili e il lato corto di nordest Tertenia. La gara l’aveva vinta Ulassai con 11.245 spine mentre Escalaplano si era fermato a 10.387. I vincitori erano quindi Ulassai ed Esterzili. Vincitori di che cosa?» (p.134). Domanda retorica che vale per Ulassai ed Esterzili, per quella guerra e per tutte le guerre del mondo.
Ci sono dunque anche qui i volontari, i fascisti convinti, gli ammiratori del duce, che partiranno entusiasti per ritornare atrocemente delusi dal dramma della sconfitta e dalla lancinante consapevolezza dei falsi miti del regime – come anche Orazio Mameli (padre dell’autore e alla cui memoria il libro è dedicato) che «dalla fede cieca del fascismo era passato a quella ragionata del sardismo».
Ma la maggior parte di coloro che partirono non lo fecero per eroismo, non per fascismo, come un dice un altro personaggio-testimone, Mario Casu, parlando di sé come di un disgraziato mandato a fare la guerra da un paese dove «la guerra si chiamava fame».
Una miriade di trame legano le narrazioni dei poveri soldatini di Foghesu ai personaggi dell’indimenticabile
Centomila gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi: sono le vicissitudini che brutalmente tolgono ogni senso all’essere catapultati in una guerra inappartenente, in condizioni disumane. Nel primo bellissimo racconto intitolato La penna di asfodelo così ricorda Vittorio Palmas il lungo viaggio per fare la guerra: «Parto di notte a piedi, da solo, a far la guerra, io che non conoscevo una cartuccia se non quella che aveva ucciso la martora. Tutto quello che possedevo l’avevo addosso, né sacco né scatola di cartone, neanche un soldo in tasca … avevo una camicia, mamma l’aveva chiesta al figlio di suo cugino Fracànzu, un paio di pantaloni e una giacchetta che sembrava rubata a un bambino di dieci anni. Calze non ne indossavo». E il racconto prosegue raccontando le ore di camminate a piedi sino ad arrivare a Serra Longa, poi a Seui che per contrasto con il villaggio ricco solo di pietre sembra una grande città, e da lì il treno per Cagliari e poi la nave per Civitavecchia: Roma, Torino, e sempre il freddo, la fame, la stanchezza, gli incontri con altri diseredati, ma anche la solidarietà (bella in questo senso quella prima figura: una donna emigrata a Torino incontrata sulla nave, che al giovane di Foghesu compra pane e acciughe). Via via che i racconti si succedono cambiano i nomi delle persone e dei paesi di provenienza dei soldati, e cambiano le guerre, ma le storie si assomigliano tutte perché tutte si assomigliano le guerre: «Arriviamo in Russia – racconta Monni Pierino, classe 1920. – Arriviamo in Russia e neanche un albero, neanche una casa e una strada che non fosse bianca. E comprendo che quella di Foghesu non era neve ma schiuma di latte, perché la neve vera uccide per il freddo e per il gelo che ti crepa i piedi e le mani. Nei primi giorni di Russia a me e ai miei compagni di sventura il gelo aveva crepato anche la suola degli scarponi» (p.275).
Il libro raccoglie anche le diverse interessanti testimonianze delle anziane che ricordano la loro guerra quotidiana contro la fame, i durissimi lavori, l’attesa del ritorno casa dei fratelli. Per tutte ricordo la cernitrice dello struggente racconto
Italia è morta, che lavora alla miniera di carbone in fondo alla valle del fiume, e di quel lavoro morirà. E ricordo le donne del rosmarino, nel racconto omonimo, dove la protagonista, Luigina, racconta cose terribili in modo esilarante. Nonostante la loro drammaticità infatti i racconti degli anziani sono spesso carichi di humor e di ironia, ovvero della leggerezza di cui sono capaci solo coloro che hanno attraversato un oceano di dolore.
Bastiana Madau

21 ottobre 2009

Decrescita felice

ALTRI SCENARI: Nuoro, sabato 24 ottobre 2009 alle ore 10:00, Auditorium Biblioteca S. Satta. Proseguono gli incontri sul tema “Verso il distretto dell’economia sociale nel centro Sardegna”, con la lectio magistralis sull’economia sociale di Maurizio Pallante sul tema dell’imprenditoria sociale e dei processi di decrescita sostenibile. Coordina Pino D’Antonio.

17 ottobre 2009

La letteratura non conta niente






"A volte, quando bevo più di quanto dovrei, mi viene voglia di maledirli tutti, lui e i letterati che mi hanno dimenticato e gli assassini che mi tendono i loro agguati nel buio e perfino i linotipisti perduti nella gloria e nell’anonimato, ma poi mi calmo e mi viene da ridere. La vita bisogna viverla, in questo consiste tutto, semplicemente. Me lo disse un barbone che incontrai l’altro giorno uscendo dal bar La Mala Senda. La letteratura non conta niente."
Roberto Bolaño, I detective selvaggi, traduzione di Maria Nicola, Sellerio, 2003, p. 416


O God che sei nei cieli, sia fatta la tua volontà, ma dimmi: prevedi che un giorno su questo pianeta periferico la maggioranza degli animali che sanno dire mamma e babbo possano incarnare la letteratura universale e smetterla di essere cattivi coglioni capaci solo d'odio, livore e sofferenza?
(commento anonimo a un toccante post dei G.o.D.)


16 ottobre 2009

Esplorazioni inutili


Vi sono mesi in cui
non nasce un granello di poesia.
Il male scaccia le metafore,
l’analogia boccheggia.


Angelo Maria Rippellino, da Versi inediti e rari

10 ottobre 2009

Silicon Burqa*

I processi educativi determinano l'ordine simbolico che sta alla base della costruzione delle relazioni, dei patti sociali, della politica, della società. Per dirla con Karl R. Popper, "i cittadini di una società civilizzata, le persone cioè che si comportano civilmente, non sono il risultato del caso, ma sono il risultato di un processo educativo." Oggi più che mai – in una ossimorica situazione di reale liberà apparente – credo non sia facile analizzare e intervenire sull'ordine simbolico sistematicamente costruito dalla caja tonta italiana degli ultimi trent'anni, che sembra aver cancellato con un colpo di spugna decenni di battaglie di liberazione verso un pensiero civile, libero, rispettoso della dignità e integrità delle persone, e delle donne in primis. Più precisamente, non sarà facile rendere consapevoli di quanta falsità e violenza è contenuta nella gran parte dei format televisivi italiani, ma bisognerà pensare seriamente che il problema è basilare e non più rinviabile. Per questo voglio indicare un lavoro che mi ha molto colpito e che – in un contesto molto complesso da trattare – ha il merito di riuscire a essere limpido. Si tratta di un documentario intitolato Il corpo delle donne e affronta proprio il tema dell'uso del corpo della donna in tv. Andrebbe proposto anche nelle scuole, secondo me, e non soltanto per le risposte che dà, ma per le domande che pone, o per quelle potenziali che potrebbe a ragione suscitare.


* Ho intitolato il post in un modo piuttosto duro, perché, in realtà, l'ho scritto circa un mese fa, quando una delle nostre eccelse ministre ha violentemente strappato il velo a una donna musulmana, cosa che mi ha fatto arrabbiare e vergognare. Sono tempi in cui in Italia delle donne se ne parla soltanto come escort o come poltiche isteriche. Terribile.
Vorrei scrivere cose buone e belle, che so? intitolare questa nota Dalla parte delle bambine, ad esempio, e così ricordare Elena Giannini Belotti, una delle maestre che, quand'eravamo ragazzine e ragazzini, ci ha aperto gli occhi, con fermezza e con dolcezza, resi maggiormente consapevoli della costruzione dei ruoli e dell'inautenticità. C'è bisogno di riprendere certi discorsi, di una maggiore informazione e di un approccio verso le culture differenti dalle nostre assolutamente meno rozzo di quello proposto dalle "avanguardie" italiane. Velate o no – come ci ha mostrato anche Fatema Mernissi nel suo bellissimo saggio intitolato L'harem e l'Occidente –, le donne musulmane sono per le strade a milioni. Con l’istruzione pubblica hanno riacquistato le ali, e gli estremi casi di violenza nelle strade algerine o afgane contro le donne non velate sono il segno della fine del dispotismo maschile. Sono una forza civile imponente che lotta per la democrazia e l'emancipazione. Non hanno bisogno dell'aiuto di ministre manesche.