8 dicembre 2013

A viva voce

Cuentan que Ulises, harto de prodigios,

 lloró de amor al divisar su Itaca

 verde y humilde. El arte es esa Itaca

 de verde eternidad, no de prodigios.

J.L.B.

7 dicembre 2013

Le navi

... 
Io certamente tornerò, insieme agli amici e avvolto ai sogni.
Io certamente canterò e non passerà un anno. 
Vladimir Vysotsky

5 dicembre 2013

A Nelson Rolihlahla "Madiba" Mandela

"... Così ti adorno, riga dopo riga, delle nostre allucinazioni perché tu digerisca, sviluppi e levighi tanta assurdità conservando le informazioni inutili nella spessa corteccia grigia fino al giorno della tua autocombustione. E soddisfatta, depongo lo strumento e mi faccio un po’ indietro per osservare il mio lavoro, con le mani sui fianchi.
Sei pieno delle mie cicatrici, baobab. Non sapevo di averne così tante." 
Da p. 29 di Spedizione al baobab*

* Spedizione al baobab è il romanzo più bello che abbia mai letto sulla storia del Sudafrica. Scritto nel 1981 in afrikaans da Wilma Stockenström (Napier, 1933), J.M. Coetzee lo lesse nel 1986 e ne rimanse folgorato, tant'è che lo volle tradurre in inglese per portarlo fuori da quei confini. E dall'inglese di Coetzee lo traduce Susanna Basso in un italiano imbattibile — dato il rischio di perdere le metafore, la poesia, nel terzo passaggio da lingua a lingua —, e dunque — considerato che ciascuna lingua lo è — da pelle a pelle.

 Nelson Mandela 
(Mvezo, 18 luglio 1918 - Johannesburg, 5 dicembre 2013)
RIP Mandiba

#vuommeco


Baron Münchhausen pulls himself out of a mire by his own hair.
 (Illustration by Oskar Herrfurth)

2 dicembre 2013

Il cuore di Icaro

È ancora buio, piove e tira vento. Ma sono riposata, sto bene, ho ancora due ore per me, e mi faccio prendere da pensieri ameni... Ricordo una mattina come questa di otto anni fa, a Parigi. Pioveva, tirava vento, stavo inspiegabilmente male ed ero in giro, insonne, dalle 5 del mattino (tiroide ballerina, scoprii qualche giorno dopo). Mi trovavo al 13°, vicino a Place d'Italie, e la prima luce accesa al secondo piano di un vecchio palazzo — intorno tutto grigio, pioveva, tirava vento... — mi diede la sensazione di uno squarcio su un cielo azzurro, proprio come il cuore di Icaro nel volo di Matisse.
Non ho più dimenticato quella suggestione, e stamattina, alla prima luce che si è accesa nella casa di fronte e alla prima sigaretta in terrazza, hélas! , si è ripresentata. 
Buongiorno.

29 novembre 2013

Vigilanza, inquietudine, manutenzione

"... E l'ho visto bene, questo paese pieno di olivi belli e improduttivi, macerie e vestigia archeologiche, strade romane, boschi e paesi abbandonati, persiane di legno che sbattono al vento, sapori di una volta e tanti ristoranti con la cucina della nonna. Tutto bello e statico: tradizione, vecchi miti, rendita di posizione. Sarà che il peso del passato offende il presente, sarà che siamo vecchi e il cuore batte per la vita già andata, sarà per questo o altro ma di sicuro per fare la manutenzione bisogna essere vigili e inquieti. Niente secondo atto. Se il passato è ideale, ogni analisi del presente risulterà, al confronto, perdente. Quindi è meglio mettere su un'espressione melodrammatica. Chi possiamo accusare della nostra sventura? Noi stessi? Meglio tirare in ballo l'ultima calamità, quella pioggia così battente che mai a memoria d'uomo...". 
Antonio Pascale, Le attenuanti sentimentali, Einaudi, Torino 2013, p. 131
Cagliari, Poetto, 20 nov. 2013. Lo scatto è di Compy Marco 

28 novembre 2013

Orgoglio e pregiudizio

Non c'è giorno, ormai, che non capiti di leggere di questo strano fenomeno che si chiama "orgoglio di essere sardi". Ma orgoglio di cosa? Di essere nati per puro caso in una terra di strepitose bellezze naturali e un interessante patrimonio culturale avuto in dono (sprecato) dagli avi? Ma per favore. Allora, di contro, chi è nato a Cinisello Balsamo dovrebbe vergognarsi? (Un esempio a caso, me ne scuso, mai stata a C.B., magari è migliore dell'Atene dei Sardi, chi lo sa.) Orgogliosi di un bel nulla guardiamoci intorno veramente , se non, al limite, di quello che possiamo essere riusciti a costruire col sudore della nostra fronte o di ciò che con molto impegno siamo riusciti a salvare, in quest'isola bellissima dove solo per caso siamo nati.

24 novembre 2013

Cento e cento case di canne, paglia e fango

Nella lingua fra i fiumi. Cento e cento case di canne, paglia e fango. L'alta zicura di limo e tronchi al limite dell'acqua, trecentotrentatré scalini per arrivare all'altare dove pulsava il cuore del capro, leggevamo la parola, interrogavamo il cielo e pronunciavamo oracoli.
...
Il vento calò. La nave si fermò, il mare era immobile. Non sapendo che fare guardammo M'u il saggio. Disse: «Preghiamo elencando le sillabe del creatore e le loro distanze. Er, otto piedi celesti da Uh. Uh, sedici piedi celesti da Is. Is, nove piedi celesti da Om. Om, nove piedi celesti da Is, da El, da Un, da Se, da Af, da En, da Mi, da Uv, da Ja». Cantando danzavamo. Un fulmine squarciò il cielo. 
...
Piccoli di statura, scuri di pelle, abituati a pensare, ragionare, contare, mai concordi fra noi. Così siamo tuttora, fatti salvi gli imbecilli che non mancano e nessuna legge potrà mai limitare.
...
Alcune donne lasciarono i villaggi e andarono a vivere nei nuraghe, aiutavano le madri a partorire e portavano loro cibo e acqua nei trenta giorni di buio. Le chiamammo donne di Is, vivevano dei doni delle genti. Nella stagione del caldo danzavano per invocare pioggia.
...
Ci moltiplicammo in numero e in valore. Per dimostrare il valore ogni gente uccideva le genti dei villaggi vicini almeno una volta l’anno, dopo la festa, nel mese del vento che piega le querce.
Umur disse: «Meglio sarebbe avere meno guerrieri e più pastori».


Meglio sarebbe avere meno guerrieri e più pastori.


Se esiste una parola per dire i sentimenti dei sardi nei millenni di isolamento fra nuraghe e bronzetti forse è felicità.


Passavamo sulla terra leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi e il mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata
dai venti e pioggia benedetta.
A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici.
Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is. 
Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti.


Chiamavamo noi stessi s’ard, che nell’antica lingua significa danzatori delle stelle.
...
Cantavamo, morivamo, danzavamo di padre in figlio, crescendo di numero e di esperienza dell’isola. Eravamo felici.
...
Il musico suonò tutta la notte e all’alba sollevando gli occhi vide il mare e il cielo specchiarsi nelle lacrime che colavano sulle guance di una donna sdraiata a occhi chiusi ai suoi piedi, bella più dell’alba, capelli neri uniti in cento trecce lunghe fino alle caviglie e bocca intagliata in polpa di jerejia. La musica tacque, Aràr aprì gli occhi e vide Eloe di Lo.
...
Facemmo la nostra parte non cedendo il cuore dell’isola.
I romani ci chiamavano pelliti perché indossavamo il cappotto di pelli di pecora. Chiamavano barbara la nostra terra e barbarici i nostri costumi. Non riuscirono in mille anni a conquistare tutta l’isola.
...
Piedi scuri, quasi neri, nella pianta non protetta da suola, mai il bambino aveva messo scarpe. Correva senza rumore, come danzasse. Ascoltava il vento che arrivava da oriente, cercava l’eco di galoppo di cavalli.
...
Il giudice viaggiava accompagnato da un volo di falchi.
...
I falchi impararono a riconoscerla. Prese gusto alla caccia col falco. Un falco la elesse a propria nutrice. Lei lo chiamò Vento.
...
Parlare. Ascoltare. Trovare racconti mai narrati, dirli con gioia. 
...
Carezze d’occhi. Labbra, lingua, pelle, nell’acqua fredda del torrente, sull’erba umida schiacciata dai corpi e morbida, sulle foglie cadute pungenti e calde di sole, sotto il leccio, sotto la sughera, sotto l’arancio.
La bontà del Creatore acceca gli amanti?
...
Il profumo dei capelli di Eleonora, erba fresca, arance mature, vento del mese di fiore d’asfodelo.
«Hai gambe di cerva giovane alla fonte, seno bello come colli del Mandrolisai».
«Hai occhi di velluto, braccia forti, denti sani».
...
La cavalletta lasciò l’isola. Il giudice prese a vestirsi la domenica per andare a messa. La capra in giacca e pantaloni ascoltava tutto il rito in silenzio e prima dell’Ite fuggiva saltando. L’acqua e il sole si alternarono secondo giuste stagioni. Il grano era grosso e pieno. L’uva asciutta e carica. Pani profumati. Vini inebrianti.
L’isola rivisse. L’olio di quell’anno fu il migliore a memoria d’uomo.
...
Trecento falchi femmina lasciarono i nidi e volarono fino all’isola di roccia dinanzi alla costa del meridione occidentale, lungo il viaggio cantarono un lungo canto che soltanto chi capiva la lingua dei falchi comprese, giunti alle Colonne si lasciarono cadere in mare come pietre e morirono affogati. Da allora i falchi custodiscono quel luogo, lo reputano sacro.
...
Noi custodi del tempo, dal giorno della perdita della libertà sulla nostra terra, abbiamo preferito finire la storia a questo punto.
Da Passavamo sulla terra leggeri di Sergio Atzeni 

23 novembre 2013

I tempi del disastro

«Il tempo reale delle notizie più o meno tediose, opportune, futili, oscene ci sta alle costole, quando addirittura non ci precede. Vibrano gli smartphone, notificano i computer, impazzano le app. Con difficoltà si distinguono le notizie dalle chiacchiere. La nostra disponibilità a partecipare al gioco della comunicazione tecnologica è proporzionale solo all’illusione di essere parte del mondo con un click. La cartografia dovette fare un effetto simile, ai sovrani cinquecenteschi, restringendo il campo dell’inconcepibile a raffigurazione che rendeva gestibile il pensiero di lunghe e lontane campagne di conquista.
Ma l’illusione arriva, prima o poi, a fare i conti con la realtà. Nel giorno in cui l’acqua ha fatto strage, spazzato via asfalto e cemento, inondato campi e cantine il sistema dell’informazione-comunicazione si è inceppato. Se la notizia dell’allarme è stata lanciata, è lecito chiedersi dove sia naufragata. Perché l’unica certezza è che non è arrivata a destinazione. Videolina mostra e commenta un fax della Protezione civile con “pochi dettagli”, specifica il direttore Emanuele Dessì; i sindaci dei comuni rivendicano di aver ricevuto comunicazioni non diverse da decine di altre.

Di certo il sito istituzionale della Regione Sardegna ignora completamente quanto sta per accadere e così la pagina on line della Protezione civile, ferma e retrodatata all’emergenza incendi. Come si sarebbe potuta diffondere tra la gente la percezione del pericolo, se è mancata persino ai siti istituzionali, alle agenzie di stampa, ai professionisti dell’informazione, ai redattori? Chi dall’alto ha gestito la comunicazione, l’ha fatto in maniera ordinaria, ignorando che l’eccezionalità richiede mezzi diversi affinché una notizia non si confonda tra centinaia di altre e anzi, diventi prioritaria.
Forse sarebbe bastata una telefonata. Forse sarebbe bastato affiancare una voce, in quella comunicazione spedita solo via fax. Come fa un qualsiasi ufficio stampa quando vuole essere certo che la notizia che trasmette sia presa nella giusta considerazione. Poi, a disastro compiuto, è accaduto che la Sardegna sia stata inondata da inviati speciali. Ma come non notare la differenza da quando, nel 2008, la redazione di Radio Press raccoglieva telefonate e messaggi in diretta “a microfono aperto” e creava un ponte tra le persone dando informazioni in tempo reale sulla viabilità, sui bisogni, sulla situazione. Invece, “non uno straccio di una radio privata, indipendente o libera che abbia allestito una diretta-non stop dai luoghi del disastro” scrive Cicci Borghi su questo sito.
E se Videolina si è spesa ovunque sul territorio, come ignorare quanto scrive sulla sua pagina facebook la giornalista di Sardegna 1 Stefania De Michele? «Avvilita e impotente perché non abbiamo potuto fare il nostro lavoro come avremmo voluto. Non abbiamo più a disposizione mezzi per le dirette. Siamo a orario ridotto e settimana corta. La buona volontà di tutti anche non pagati serve a poco in certi casi (…) avremmo voluto esserci di più e meglio dove c’era bisogno anche di raccontare con una voce in più. Non molliamo però, non mollate…”. “Dieci anni fa avremmo potuto fare una diretta satellitare” commenta il collega Gianni Zanata. “Oggi non siamo in grado neanche di una diretta streaming”.
L’informazione locale è ridotta ai minimi termini. Lo sa chi lavora nelle redazioni delle agenzia di stampa, sottodimensionate nonostante passi da lì la gran parte delle notizie che rimbalzano nei media. La chiusura della redazione cagliaritana della Nuova Sardegna è passata quasi sotto silenzio, con l’eccezione di una nota del sindaco di Carbonia, perché la Nuova per il polo industriale del Sulcis ha sempre dimostrato grande attenzione. L’informazione on line cresce invece, ma che fatica reperire le risorse per stipendi e collaborazioni.
Però non si può mollare, perché l’informazione locale è preziosa. Lo dimostra il tentativo scandaloso della censura dell’intervista – recuperata in extremis dal vice direttore di Rai 2, dopo che il caso è finito sul blog di Beppe Grillo – al direttore dell’Unione Sarda Anthony Muroni, forse perché osa additare al “mostro burocratico degli appalti che gestisce il sistema Italia”.
Adesso che inizia la ricostruzione, per evitare cose già viste da ultimo a L’Aquila, sarà bene vigilare con cura; così come è opportuno verifica cosa è accaduto al bacino al cianuro di Furtei, ai bacini dei fanghi rossi a Portovesme e in tutti i luoghi “critici” della Sardegna. Roba scomoda, certo, ma che molti giornalisti farebbero con zelo e passione, se potessero. Se con la ricostruzione si mettessero in moto le migliori professionalità in tutti campi, informazione compresa.»
Giulia Clarkson, L'informazione ai tempi del disastro, sardegnasoprattutto

20 novembre 2013

S'abba tenet memoria*

La riflessione di Luigi Ghirri sul tema del paesaggio culmina sul finire degli anni Ottanta con la realizzazione dei volumi Paesaggio italiano e II profilo delle nuvole, entrambi del 1989. Le immagini della prima ricerca erano esposte quasi tutte nell'allestimento ospitato all'Arsenale denominato "Viceversa" (Palazzo Enciclopedico, Biennale di Venezia 2013). Tra le tante ammirate nella mostra, l'immagine che pubblico qui non mi aveva convinta (se così si può dire, dato che è bellissima) proprio a partire dalla considerazione che Ghirri lavora sulla massima astrazione dai contesti specifici e che la sua osservazione della natura non è mai troppo caratterizzata localmente. Ecco invece che, paradossalmente (ma l'avverbio è già a posteriori...), trovavo questa meno "sintetica", già troppo collocabile geograficamente e dunque non assimilabile in un concetto astratto come "paesaggio italiano". 
Stasera mi è tornata in mente, non a caso, e l'ho cercata. Rivedendola ho subito realizzato di avere cambiato idea...
Un amico dice che Ghirri "ha preso una bastonata in testa da Lucio Fontana". A parte l'espressione un po' così, io non so, salvo una suggestione, ora, circondati dall'acqua come siamo... Ciò che "Ghirri" non riesce a sublimare nel "suo" magnifico paesaggio sono le voragini spalancate all'improvviso su ponti come quello che da Hanging Rock porta a Calagì... Forse ha pure provato a farlo, ma poi ha cambiato idea "lui", quella volta, l'astrazione era troppo complicata.


*Antico detto sardo. L'acqua ha memoria, ossia non dimentica i suoi corsi naturali sulla superficie terrestre.

27 ottobre 2013

Particolare

"Credo che Bacone sia rimasto prigioniero della sua filosofia, e questo pericolo minaccia anche me. Davanti agli occhi aveva una vivida immagine di un gigantesco edificio, che però svaniva non appena voleva scendere sul serio nel particolare. Era come se alcuni uomini del suo tempo avessero iniziato a erigere un grande edificio dalle fondamenta; ed egli avesse immaginato qualcosa di analogo, l'aspetto esteriore di una costruzione siffatta, ma l'avesse immaginato ancora più maestoso, forse, di come lo vedevano coloro che lavoravano a costruire. Per far ciò non era per nulla indispensabile avere talento architettonico, ma solo una 'vaga' idea del metodo. Ma il peggio era che egli polemizzava contro quelli che veramente costruivano, senza conoscere i 'propri' limiti, o senza volerli riconoscere.
D'altra parte, vedere questi limiti, e quindi ritrarli con chiarezza, è oltremodo difficile; trovare insomma, per così dire, uno stile in cui poter ritrarre questa cosa oscura. Infatti vorrei dire a me stesso: «Dipingi davvero solo ciò che vedi!»."
Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, a cura di Michele Ranchetti, Adelphi, Milano 1981, p. 126.

3 ottobre 2013

Chioggia

Se ne stanno lì, fermi come tanti soldatini, a presidio, più che di branzini e capesante, di quell'odore fortissimo che entra nelle nari e aleggia ovunque, sin dentro le chiese e nei caffé. Mai visti così tanti in vita mia...

1 ottobre 2013

Un geniale bricoleur

Durante cinque decenni di ricovero in un ospedale psichiatrico di Rio de Janeiro, Arthur Bispo do Rosário (n. 1910 ca a Japaratuba, Brasile; m. 1989 a Rio de Janeiro [n.d.B.]) ha prodotto ottocento arazzi, sculture e sontuose vesti cerimoniali per il Giudizio universale. Ex guardiamarina che viveva a Rio facendo lavoretti saltuari, Bispo nel 1938 ebbe una visione: Cristo e una schiera di angeli azzurri gli dissero che era stato scelto per presentare a Dio, alla fine dei tempi, il contenuto del mondo che riteneva degno di redenzione. Subito dopo aver raccontato questa apparizione, Bispo fu internato in manicomio, dove trascorse il resto della vita, continuando a inventariare meticolosamente ciò che credeva sarebbe stato chiamato a rappresentare Dio. Benvoluto dal personale ospedaliero, che gli risparmiò i trattamenti più brutali, fu lasciato libero di aggirarsi liberamente per la struttura e ottenne il permesso di raccogliere meteriale per il suo lavoro che, depositato nella soffitta in cui lavorava, con il passare degli anni inziò a invadere il resto dell'ospedale.
Molte delle opere sono ricamate, secondo un'arte usata nella sua città natale per creare stendardi religiosi. Con lenzuola, capi di abbigliamento scartati e scampoli di tessuto, e utilizzando spesso un filo azzurro ricavato dalle divise dell'ospedale, l'artista ha creato elaborati arazzi in cui sono catalogati nomi, navi e segnalazioni marittime, profezie, poesie, pittogrammi e testi che parlano dell'amore impossibile. Altre opere comprendono ordinati schieramenti di oggetti trovati o fatti a mano - attrezzi, suole di scarpe, cucchiai - che ricordano le sculture di artisti dell'avanguardia come Arman e Claes Oldenburg. Bispo creò anche intere flotte di navi in miniatura, eco del suo passato di marinaio e auspici del suo futuro ruolo: come Noè, Bispo raccoglieva il mondo nella sua arca da bricoleur.
Ho scoperto questo fantastico artista all'Arsenale di Venezia, Il palazzo Enciclopedico, 55. Esposizione Internazionale d'Arte. Riporto la nota contenuta a p. 51 nella guida alla Biennale 2013 edita da Marsilio. Le foto di seguito sono mie.


13 agosto 2013

Torrandi

Benit sa mala strasura
pruini e pampas portendi
braxa e cinixu lassendi
disassussegu e tristura
In custas terras drommias
funt morendi is isperas
in is frunzas cuas penas
feridas e timorias
Beni torrandi babbai
ai custas pedras antigas
ai custas leas chi istimas
beni torrandi a gherrai
Nara tui si s'ofesa
as a podi perdonai
e a custas terras torrai
onori, paxi e bellesa

Viene la perfida tempesta
portando polvere e fiamme
lasciando braci e cenere
sconforto e tristezza
In queste terre addormentate
muoiono le speranze
dentro le rughe nascondi
pene, ferite e paure
Vieni, torna, padre
a queste antiche pietre
a queste zolle che ami
vieni, torna a combattere
Dimmi tu se potrai
perdonare le offese
e a queste terre ridare
onore, pace e bellezza

Gabriela Ledda

24 luglio 2013

C'eravamo

Lo stanno dando in tv, ma non desidero rivederlo. Ricordo che otto (nove?) anni fa, a Parigi, mi buttai a pesce in un cinema dove davano l'intera retrospettiva di Ettore Scola, contenta dell'occasione, dato che non avevo mai visto "C'eravamo tanto amati"...
Uscii dal cinema piangendo come una gallina. 
No, non voglio rivederlo, ho paura di scoprire che magari non mi commuove più.

14 luglio 2013

Quel che non si dice

[Quel che non si dice in un thread di suggerimenti per le vacanze.] 
Siamo stata a Oslo - prima tappa di una vancanza in Norvegia un paio di anni prima della strage di Utoya. Avevamo l'albergo nel punto più alto della collina che domina la città, il fiordo, le tante isolette, e da lì ci spostavamo con mezzi pubblici che facevano numerose soste in diversi punti residenziali, con case e ville sparse, immerse nel verde, giardini molto curati. Soprattutto la sera, al ritorno, l'autobus si riempiva di adolescenti di cui colpivano la bellezza e l'allegria, oltre che la semplicità dell'abbigliamento. Ci sembravano quasi diversi dai ragazzi italiani, in questo, erano davvero gioiosi. Ci dicevamo che era logico, dato che avevano la fortuna di vivere in una città così bella, funzionante e certo ricca. Mi sono domandata tante volte se quei ragazzi siano riusciti a conservare quello stesso sguardo limpido e sereno, dopo...

16 maggio 2013

Alla ricerca di una nuova immagine del mondo

La cosa migliore dei vernissage è addocchiare un* complice, riempirsi le tasche di tramezzini e scappare. (Prima di finire mangiucchiata anche tu).

16 aprile 2013

Ciao Maria

... E io ho conservato per tanti giorni ancora s'achisorgiu, la brocca di argilla colma di monetine, il piatto azzurro con i frutti del melograno, e ho chiesto a Ruth di lasciare il quadro sulla fucilazione dell'anarchico Michele Schirru. Mi piace guardarlo, nel centro della sala di lettura,  appeso a una catenella fissata al soffitto, distante dalla parete come un altare buddista.
Momenti di bellezza nel mare delle inquietudini che attraversano le isole...
Ritorna, Maria. 
Tornate tutti.
Tanta buona vita a te, agli amici del borgo di Alassaiad, e saluta il mare.
Nascar, p. 24.

Ulassai, 27 settembre 1919 – Cardedu, 16 aprile 2013

9 aprile 2013

Le parole nuove

Era il giorno della festa di Santa Barbara, protettrice dei minatori, e per la prima volta mio nonno mi portò a una gara poetica, tediandomi ai limiti della vertigine. Le voci dal palco mi arrivavano come una nenia monotona e triste, e così, non appena nonno si distrasse incantato dal tenore e da Zizi e Pazzòla, gli lasciai la mano e corsi in piazza a vedere la bancarella dei giocattoli. 
Lì davanti un gruppo di minatori discuteva animatamente intercalando al sardo parole inaudite, che alle mie orecchie sembravano oscene, insomma “parolacce” (proibite a casa mia). Intanto nonno, che già mi cercava, mi raggiunse, trovandomi imbronciata. “Sono maleducati questi signori”, gli dissi indicando il capannello e snocciolandogli le parolacce ascoltate: "verticalizzazione", "pinerolo", "gabbie salaliali", "scippo" e "scioppo". Ricordo che mi abbracciò ridendo sonoramente, poi mi riprese per mano e ci incaminammo verso casa. Lungo la strada mi parlò di un villaggio di raccoglitori di banane, di una compagnia battente bandiera americana che di tanto in tanto arrivava a portarsi via il raccolto, dando una paga da fame ai contadini poveri. E raccontando mi spiegò le parole nuove.

Il nuovo nell'ignoto

«Dovessi individuare due parole per descrivere questi anni io direi: “separazione” e “rimozione”. La separazione avviene per mezzo della soddisfazione virtuale della socialità, i nervi sembrano appagati nell’auto-intrattenimento del social network e la cognizione del dolore è occultata. La rimozione è invece un processo di smaltimento di ciò che un determinato sistema, neuronale o politico, considera come una minaccia o un peso.
A essere rimossa, oggi, è un’intera generazione, “un accumulo / di prole in disavanzo” per cui il meccanismo storico non ha previsto alcun presente. Il mito di Crono che mangia i suoi figli, e cioè l’epoca in cui stiamo vivendo, rimuove a sua volta il proprio sistema culturale e filosofico di riferimento. Come spiega il filosofo Mario Perniola ciò avviene come una forma di protezione da sensi di colpa strutturali. L’organismo-società smarrisce la coscienza di sé esattamente come l’omicida rimuove il proprio raptus o rovina nella nevrosi di fronte a una contraddizione troppo grave.
Un poeta ha il “compito” di scoprire nuove verità, cioè di trovare una differenza “sentimentale e perciò filosofica” (Leopardi) in grado di stabilire un conflitto significativo con il dato di fatto presente, con “l’immobilità delle cose che ci circondano” e che, secondo Proust, “è imposta loro dalla nostra certezza che si tratta proprio di quelle cose e non di altre, dall’immobilità del nostro pensiero nei loro confronti”. Questa è la sua funzione, che è sempre una funzione di sabotaggio e di eresia.
Ma dove sono, oggi, i poeti? Come le falde acquifere scorrono e si incontrano nell’underground terrestre, sotto la crosta secca della comunicazione ufficiale. I nuovi poemi “avvengono” lì dove è necessario: in una fabbrica, in una scuola, in una stanza di qualche quartiere-dormitorio di provincia, in un paese di montagna o in qualche interstizio della metropoli. Ovunque ve ne sia necessità e dove tale esigenza trovi gli strumenti necessari a esprimersi nelle forme del pensiero estetico. Forse non ce ne siamo ancora accorti e il miracolo della sorgente poetica si è già verificato all’interno di uno dei nostri campi nomadi o in un centro di identificazione e espulsione. Forse non sarà più un nativo a comporre il poema della nuova Europa. La storia non è finita, la ricerca è aperta e il fermento continua, anche se non se ne parla. Ma perché non se ne parla
Davide Nota, Lettera a un giovane poeta in Italia, L’Unità, 8 aprile 2013.
Alighero Boetti, Tutto, 1994. 

15 marzo 2013

La cartolina del Papa

Una volta spedii da Roma una cartolina del Papa. Non ricordo quante lire costasse all'epoca: avevo vent'anni. Proprio oggi, invece, ho visto che quella del nuovissimo Papa, che costa 20 centesimi di euro.
Niente, non ricordo proprio più quanto, invece, quell'unica, papale, acquistata da me (ma l'ho già scritto)... 
Ecco, ho ancora ben presente, invece, i suoi destinatari.  
La mandai ai bambini di Areso, spedendola all'indirizzo della bimba che capeggiava la banda che circondò festosamente la nostra R4 (targata Roma), quando per caso arrivammo nella piazzetta di un piccolo villaggio ai piedi dei Pirenei.
Coche! Coche!
Un gruppo di bambini e di bambine urlanti batteva le mani sul cofano dell'automobile di terza mano.
Così scendemmo dal "coche" e ci sedemmo sul muretto della piazzetta a chiaccherare: "Come ti chiami?", "Quanto è grande Roma?", "Cosa fa tuo padre?", "Che bei sandali...", "Dov'è la Sardegna?"...
Salutandoci, infine, mi fecero promettere che al ritorno a Roma, dove allora studiavo, gli avrei spedito una cartolina del Papa, che non era ancora Francesco.
Sul frontespizio di un vecchio Oscar Mondadori (Fiesta di Emingway, che durante quel viaggio usammo a mo' di guida turistica) è ancora leggibile l'indirizzo della piccola capa basca, scritto a matita nella piazzetta di Areso, 16 case, 3 bambine, 5 bambini.
Di quel viaggio ricordo quasi tutto, nonostante siano passati tanti, tanti anni, tant'è che potrei scrivere Fiesta 2 con gli appunti sparsi tra le righe che Hemingway produsse tra una fiesta e l'altra: da Lerida a Saragozza, da Pamplona dove arrivammo in tempo per San Fermín a Bilbao, da San Sebastian a Biarritz... Sino a quando buttammo il libro dentro il cofano per proseguire ridiscendendo a caso i Pirenei, baschi e francesi, e così trovando anche Areso, appunto, per caso, e i suoi bambini della serie Roma uguale Papa. "Neanche foste capitati in Burundi!", dissero gli amici quando raccontammo.
Scemi.
A me, invece, sembrò una situazione normale, direi  famigliare, perché dove sono nata io, quando eravamo bambini noi, se un "coche" targato Roma si fosse fermato nella piazza del Convento non sarebbe sfuggito alla nostra enorme curiosità.

Ghiaccio

Cammino sempre in fretta e piena d'ansie, ora, ma questa mattina la paura di cadere nei vicoli antichi di piccola città mi ha costretto a un incedere lento.
Andata e ritorno.
Piccoli passi, allertati dall'ascolto di cuore e polmoni, mi hanno svuotato la testa, come dopo aver nuotato per due ore di seguito. Spero che il ghiaccio duri.
Scherzo! :-)

27 febbraio 2013

Io non so con quale dolcezza


Eo no isco chin cale dulzura
mi ritirat sa terra ue so nadu.
Matteo Madao

L’immobilità, che è dura a morire quasi quanto la solitudine e la nostalgia, cede dunque al progresso. Alla lentezza biblica s’incrocia la velocità: e chi vuole indugiarsi a camminare lungo i greti del rimpianto, come accadeva a Giacomo Quesada, trovi almeno una sua rassegnazione all’urgere del nuovo considerando le cose che hanno secoli e secoli, nate col segno dell’eterno.
I sassi e le rocce votive di Ulassai; le orme delle capre sull’argilla e il loro festoso subbuglio alla vigilia d’ogni partenza d’ottobre verso il Sud per il ritorno in maggio; l’eco di Morosini, che ripete il fischio del trenino moribondo; le aquile, gli sparvieri, i colombi; le foreste di Santa Barbara, santuario arboreo; la dignità dei fanciulli che non rifiutano al forestiero un servizio o una cortesia, ma respingono come un affronto un qualsiasi compenso.
Le case megalitiche e le rovine delle città vetuste.
I monastici cortili fioriti, e un ciuffo di palme, in Campidano, per l’entrata di Cristo in Gerusalemme.
I tetti di sangue dei villaggi alpestri col fico, l’olmo, il ciliegio per sentinelle.
I villaggi d’alta montagna coi balconcini pensili e la quercia il mirto e la rosa.
La poltrona di trachite delle case dei villaggi occidentali, alla quale fumare la pipa e conversare col vicino in pose orientali.
Le pietre favolose degli animali che l’isola mai conobbe: l’Elefante di Castelsardo, l’Orso di Palau, il Toro, la Vacca e il Vitello di Sant’Antioco.
Il verde argenteo degli oliveti della contrada turritana, punteggiato di cipressi; le valli incantevoli del Tirso e del Temo; le feraci campagne d’Alghero.
Il campanile accanto alla chiesa e i campanilini sui tetti dai quali sale il fumo azzurro.
Lo stazzo e il tormento granitico della Gallura.
Il mare congelato nelle colline dell’Anglona.
La catena del Marghine e il masso centrale su cui domina il Gennargentu, diaframma alla Sardegna, come il Gran Sasso all’Italia, che fu e non sarà più d’impedimento nei secoli all’unità dei Sardi.
I monti anacoreti e le confraternite di scogli.
Il selvatico Ortobene che è un gran concerto d’acque e di foglie.
Le pianure di Giave, le prue dei toneri ogliastrini, l’acropoli di Serrenti, i vulcani spenti.
I campi elisi degli asfodeli.
Gli stagni e le peschiere.
Le piramidi di sale e le catacombe minerarie.
I ponti e i manieri; le torri di Pisa e quelle antisaracine.
I noci, i noccioli, i castagni, i corbezzoli, i carrubi.
I giardini d’aranci.
Le chiese nelle contrade dai bellissimi nomi.
La conquista del vello del cinghiale.
Le danze, i canti, le ardie dei cavalli.
Le feste che domani saranno spensierate.
Terra antica e giovane, isola della resistenza; della quale persino Giacomo Quesada, che pendeva alla malinconia e vi conobbe più dolori che gioie, ebbe a dire negli ultimi suoi giorni che non sapeva andarsene senza esprimere un ultimo desiderio che riconosceva, con suo rammarico, impossibile; quello di nascervi un’altra volta, anche a costo di molto soffrire.
Salvatore Cambosu, Miele amaro, Ilisso, Nuoro 2004, pp. 368-369.  
Maria Lai, Senza titolo (1954)